lunedì 24 giugno 2013

Il mistero

Siamo dentro storie di separazioni, e quindi di dolore, comunque le si guardi.
Il dolore esiste. A tutti i livelli, in tutti gli esseri viventi (quante volte diciamo che pure un ramo strappato, reciso male, genera sofferenza all’albero?).

L’uomo è il principale artefice del dolore, e il primo a soffrirne.
Poi c’è modo e modo di viverlo, il dolore subìto. I più lo riversano sul mondo accanto, generando altro dolore in un perverso meccanismo di moltiplicazione multilivello.
In fondo Caligola può essere, ed è, in ognuno di noi, in molteplici modi.

Nel Rosario, ci sono specifici i “misteri” dolorosi. Misteri, son detti. Il primo: “Padre allontana da me questo calice, ma la tua e non la mia volontà si compia!” Gesù uomo, vero uomo. Non amante del dolore, amante di Dio.
Il secondo e il terzo un poco spiegano: dolori fisici, nel corpo flagellato, dolori interiori con la corona di spine ben calcata sulla testa.
Poi al quarto si sale il Golgota. Quante cadute in quella salita? Dopo le frustate, la corona di spine, il massacro, la stanchezza indicibile: caricarsi della “propria” croce, e salire. Su in alto. Una salita in quel modo! E tutti attorno che gridano, dileggiano. Gli amici svaniti. Quelli che volevano costruire tre tende dove stanno? I tanti miracolati? E quello che mai lo avrebbe tradito?
Uno di passaggio, uno sfigato si direbbe, si ritrova costretto ad aiutare. Non c’entra nulla con quella storia di follia dilagante (chissà che fine avrà poi fatto!?).
Poi la storia termina molto più drammatica di come si è evoluta, se possibile.
Inchiodato mani e piedi, spogliato, innalzato ad essere mostrato al mondo, abbeverato d’aceto, sfottuto persino, sino alla fine. Ce ne è abbastanza per ribellarsi, no?
E invece: “Padre, perdona loro, che non sanno quello che fanno”. 
E poi quell’urlo che scuote la storia degli uomini, e che ancora l’umanità deve scoprire davvero, capire, vivere. Quel momento che cambia il corso degli eventi, che spiega il dolore, che illumina le tenebre per l’eternità.
Prima al Padre la preghiera per chi lo crocifigge, poi l’urlo che dice il distacco dal Padre. L’Abbandono. Che più morte non si può.
La gratitudine del Padre per essersi rimesso alla sua volontà?

Igino Giordani, uno che è entrato profondamente in questa storia, che certo l’ha più vissuta che studiata sui libri, dice: “Ritte e ferme, contro la tempesta, nell’ora decisiva, non stettero che Maria e la croce…”

Maria, torniamo sempre lì. Maria che aveva la sua dignità assassinata, assieme al Figlio. Lui, che viveva la morte globale, del tutto. Ma specie della sua dignità di uomo, e di Figlio di Dio.
Porlo a morire in alto, era togliergli l’ultima dignità di uomo: poteva morire in pace, avere una lacrima, un cedimento. Invece sta innalzato: testimone sino alla fine, questo il disegno. E lui risponde urlando al cielo per farsi sentire. Più dignità perdi, più attiri a te, da innalzato…

Ecco, la dignità. Una proprietà superflua per i più, ridondante, dei tempi andati. Chi ne parla più, mai? Eppure uno dei valori fondanti dell’umanità.
E quando ti viene calpestata, crocifissa, sei quell’Uomo lì del Golgota, senza magari saperlo.
La dignità dell’uomo è quella cosa che lo definisce, vorrei dire, nel suo disegno eterno, quasi cornice del quadro divino…

Partecipo oramai ai dolori di tanti amici, quasi come crocevia, concentratore di storie, anche, di dignità uccisa, calpestata.
Penso alla dignità di un amico carissimo che da decenni tenacemente vive dentro una storia quasi impossibile da spiegare e che negli scorsi giorni si è fatto migliaia di km in moto. Naturalmente: solo. Partito per dare sfogo, una volta tanto, quasi una momentanea liberazione. E tutto andato storto, che peggio (quasi) non si poteva. E poi, al ritorno, ancora sommatorie di eventi negativi, a tutti i livelli. E con dignità estrema continua ogni giorno ad affrontare l’esistenza.
Penso alla dignità dei tanti (e tantissime!) soli nella vita, e specie nella vita coniugale, che ogni giorno si trovano a vivere realtà inimmaginabili. Dignità che a volte pare subire traumatici calpestii, tali da mettere in discussione persino acclarate e importanti scelte di vita.

Quale il disegno? Non facile decifrare, non facile vivere.
Un mistero del dolore dinanzi a cui occorre tacere: in rispettoso, assoluto silenzio.

(foto mia, Spagna 1980)

venerdì 14 giugno 2013

Dio è morto

Ho dei ricordi vaghi, ma qualcosa riesco a rimettere insieme. Forse l’estate del ’67, forse del ’68: avevo tredici, quattordici anni. In una piccolissima verde splendida radura, sotto gli alberi, pomeriggi di vacanza. I primi innamoramenti. Avevamo una radiolina (oltre al modernissimo mangiadischi!), e c’erano solo le onde medie, con i tre canali nazionali. Qualcuno ci aveva detto – il passaparola, mica come oggi che l’informazione è inflazionata! – di una canzone censurata, che però si poteva sentire su Radio Vaticana, che non riuscivamo a sintonizzare. Una canzone dal titolo impossibile da pensare: “Dio è morto”. La cosa mi lasciava molto perplesso, come poteva Dio morire? Ero stato chierichetto, e addirittura presidente per ben due volte, in una importante parrocchia romana, con molto impegno, come mio solito. E quindi sapevo tutto, no?
In quegli anni Dio era concepibile solo trionfante, altro che morto! Certo, il Figlio era morto in croce, ma poi risorto… e poi questa canzone diceva Dio morto, quindi il Padre…
La curiosità era dunque forte, forse pure il gusto del proibito (ma il paradosso era che la Chiesa la metteva in onda… quindi?).

Finalmente, ma credo diverso tempo dopo, riuscii a sentire questa fantomatica canzone. Forse da qui nacque la passione per Francesco Guccini, che poi mi ha accompagnato per tutta l’adolescenza, e oltre. Le canzoni delle osterie fuori porta, degli amici che se ne vanno, l’avvelenata… e tantissime altre. Hanno cresciuto me e buona parte della mia generazione.
Oggi mi rendo conto che l’uomo Guccini aveva qualcosa che trascende, nello scrivere cose che sentivamo nostre perché erano patrimonio comune dell’umanità.
L’arte, quella cosa che parla per sempre e ad ognuno, nell’anima immortale.

Guccini, profeta involontario come tutti, si guarda semplicemente attorno, e pare che nell’incipit sia partito da una poesia di Allen Ginsberg: “Ho visto le migliori menti della mia generazione distrutte dalla follia…”.

Di recente sono accaduti, in rapida successione, episodi che mi hanno annichilito. Mi son sentito più che morto, tornato indietro nella mia storia, inebetito. Impossibilitato a tutto. Una sensazione di errori macroscopici, spaventosa. Solo a momenti si dileguava il baratro, nel rapporto coi fratelli.

Ecco, a questo punto della mia vita, so bene che Dio è morto davvero, morto in quelle cose che canta Guccini, e tante altre.
Quante volte l’ho ucciso e uccido, accantonandolo nel mio vivere.
Quante volte lo uccidiamo, ogni giorno, ogni notte, coi nostri tradimenti, con il nostro delirio di onnipotenza.
Quante volte ci sentiamo dio costruendoci un’esistenza a nostra immagine e somiglianza.
Quante volte siamo al centro della storia e tutto ci gira attorno.
Quante volte gli erronei sono sempre gli altri e noi i sempiterni giusti.

Ma so pure, ne ho qualche esperienza (e se è possibile a me è possibile a tutti!), che Dio è risorto, è vivo, molto vivo. Una cosa incredibile davvero: dipende da me! Mi ha lasciato una libertà tale che sono io che decido se Dio è. Pazzesco, eppure.
Attimo dopo attimo della mia vita posso far vivere o morire questo Dio “che sta alla porta e bussa”. “Se uno mi ama e osserva i miei comandamenti, io e il Padre verremo a lui e prenderemo dimora in lui”: più di questo?
E poi, la cosa stravolgente è che… non è mai troppo tardi!
Basta iniziare, in questo momento, non ieri, non domani. Questo è il tempo di Dio: adesso.

(foto mia, Umbria 2011)