venerdì 5 ottobre 2012

Per sempre

30 settembre 2007, anche allora era domenica. Cinque anni son trascorsi da quando, obtorto collo, lasciai la casa ove ero convinto che sarei giunto sino alla fine dei miei giorni. Una casa antica e bella che credo di aver amato più di tutti i suoi (tanti) abitanti prima di me. È così: penetro nelle cose, restaurare un mobile o sverniciare una vecchissima persiana… tutto può essere frutto d’amore.
Anni prima passarono da noi degli amici che vivono a Milano, lui architetto. La loro figlia più piccola, limpida, partendo disse tutta soddisfatta alla mamma “Questa è la casa più bella che ho mai visto!”

Se mi volto indietro non posso non chiedermi: come ho potuto farcela? Giungere qui con l’autunno che premeva, tutto da rifare, c’era solo un letto pieghevole, un vecchio tavolo da esterni con sedie di plastica rosse. Qualche pentola. Pensavo di dover comprare i mobili della cucina, e solo poi mi resi conto che avevo da parte i pensili della casa dei miei, degli anni ’60, in formica. Chissà perché mi aspettavano, come se questo evento fosse già scritto… e comunque oggi il vintage è di moda! Proprio di recente una giovane architetta, impattando con questo mio eremo ha esclamato: “Una casa bohemienne, da artisti!”

Poi pian piano ho affrontato e risolto tanti particolari. Mi son ritrovato con energie inimmaginabili davvero. Anche se oggi per la verità sento la stanchezza sopraffarmi, sempre più spesso. Una stanchezza che viene da lontano, e non è solo quella fisica del faticare da solo e con la prospettiva della solitudine.

Quando penso ai misteri dolorosi del Rosario, quella serie di eventi sanguinosi accaduti nell’arco di poche ore… mi chiedo come abbia potuto, l’uomo Gesù Cristo, arrivare sino alla crocifissione in quel crescendo inenarrabile di stanchezza che si sommava ai dolori di vario genere che gli venivano inflitti. Come non sia rimasto sotto il peso della croce nel salire il Golgota… poi l’apparizione del Cireneo, l’aiuto preciso per giungere sino al momento finale e cruciale, a quel grido che avrebbe cambiato (cambia, cambierà!) la storia, per sempre.

   Senza niuna impazienza sognerò
   Mi piegherò al lavoro
   Che non può mai finire,
   E a poco a poco in cima
   Alle braccia rinate
   Si riapriranno mani soccorrevoli,
   Nelle cavità loro
   Riapparsi gli occhi, ridaranno luce,
   E, d’improvviso intatta
   Sarai risorta, mi farà da guida
   Di nuovo la tua voce,
   Per sempre ti rivedo.
   - Roma, 24 maggio 1959 -

Giuseppe Ungaretti: ancora lui, sempre lui. Mi accompagna dai miei quindici anni, quando una sua raccolta di poesie divenne il mio secondo Vangelo. E forse qui tutto era già scritto: la mia vita compresa in questi due poli, questo generatore di corrente vitale tra Cielo e terra.
In questi giorni continuamente mi rincorrono queste parole, scritte dal poeta dopo la scomparsa della sposa Jeanne. Scomparsa, morte, trapasso: realtà che per un separato sono pane quotidiano, ma ancor più. In fondo quando ti coniughi puoi arrivare a mettere in conto la morte, ma non certo l'abbandono.

E pensare che al momento di sposarmi avevo vicino un caro amico che aveva subito un incidente dieci anni prima, e da allora vive in carrozzella. Sposandomi mi resi conto che la creatura che avevo accanto, a cui stavo promettendo tutto me stesso, poteva il giorno dopo subire un incidente e rimanere tutta la vita immobilizzata. Cosa avrei fatto? Ho detto il mio sì incosciente anche con questa prospettiva davanti. In fondo “l’amore è forte come la morte”, no? Poi di tutto è accaduto, amore e non. La nostra vita non è stata una passeggiata, forse non lo è mai.
A un certo momento mi son ricordato di quel mio sì, per sempre: carrozzella, tumore, morte. E l'abbandono, inaspettato. Come puoi viverlo “amore”?
La sola possibile risposta, ogni giorno di più, è in quell'Abbandono sul Golgota: altre non ne trovo.

(foto mia, Umbria 2006)