venerdì 26 agosto 2011

Ma chi te lo fa fare?

Da anni seguo da vicino il web e la sua evoluzione, pur qualche volta con fatica. L’età comincia a sentirsi, e pensare che ho vissuto in prima persona gli albori dell’informatica in Italia. Il mitico Olivetti P101, le schede perforate, l’IBM 1130. Conservo da parte l’Olivetti M24, primo pc di casa: un piccolo gioiello di appena un quarto di secolo che tecnologicamente è come un millennio.

Ricordo quando sul web si cominciò a parlare di blog, e si faticava a capire cosa potesse essere nella realtà, quale la sua utilità. Oggi, per seguire un invito di amici, mi ci ritrovo dentro in pieno, lo uso come un diario condiviso, il diario della mia vita da separato al cospetto di Dio, della mia sposa, della storia.

Di recente mi è stato chiesto brutalmente: “Ma chi te lo fa fare? Sei matto? Mettere in piazza, sul web, cose talmente personali!”

Certo, è una situazione quasi da Grande Fratello. So bene di condividere con tanti, che conosco ma anche ignoti, ai quattro angoli della terra, cose che certo non direi a voce ovunque. E' il web, fai cose impensabili.
E ho tante buone motivazioni per stare qui a scrivere.

Potrei dire, per cominciare ridendoci su, ma neanche poi tanto, di uno slogan della contestazione giovanile (era il '68 o il '77? ahh, la vecchiaia!): "Il personale è pubblico". Ma non è questo.
La spinta vera mi suona dentro lontana nel tempo, dal Vangelo della mia infanzia: “Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date!” e la sua logica conseguenza, in questo caso: “Scrivere è credere all’Amore”.
Ma c’è dell’altro. È Ignazio Silone, in “Ed egli si nascose”, edito da Città Nuova: “Quando uno è passato per l’inferno e torna tra i vivi, ha il dovere assoluto di raccontare quello che sa”. Parla della sua vita, ma anche di me.

Sono stato molto lontano, “agli ultimi confini della terra”, che non è la Patagonia ma è la terra di nessuno ove Dio pare impossibile, ove si sopravvive adattandosi, inventandosi e quasi drogandosi di tutto. Quando neanche tu sai più chi sei, e perdi la cognizione di te, delle cose, il senso del vivere, la meta. Si può vagare così per anni, decenni, la vita. Errabondo, nel Sinai deserto, assetato, tra idoli e miraggi.

Ho la sensazione di aver fatto il giro della terra, aver visto o vissuto quanto esiste di bene e di male. Son poi tornato al punto di partenza.
Un viaggio inutile, superfluo? Verrebbe da dire di sì.
Ma ho imparato a vivere il presente, senza guardarmi indietro. Senza rimpianti, crucci, tristezze. Mi dicono che Dio mi ama così come sono. Con i miei limiti, i miei errori. Deve essere proprio vero.
Certo, un viaggio straziante, immane. Lo definisco i “miei venti anni e oltre di deserto” un po’ rifacendomi ai quaranta del popolo eletto nel Sinai. Ma è la storia dell’uomo, dell’umanità di sempre.

Viaggio non inutile, non superfluo. Generatore di vita. Ma dipende solo da me, dal mio vivere il presente. Se ne faccio tesoro sono on-line col Creatore. Se rinnego, sono in loop, ho davvero sprecato la vita.

Scrivo, mi metto continuamente in gioco qui, dinanzi al mondo intero, perché so di quanto si possa stare male lontani da sé, dal disegno di Dio, dall’Amore. Son qui per chi è lontano dalla propria vita: posso testimoniare che farcela è possibile. Occorre tanto sangue ed onestà intellettuale infinita.

Alcuni lettori mi scrivono: poesia pura, mi hai commosso, grazie.
Se pure fosse una sola persona a leggermi, con cui nasce sintonia, a cui comunico il lavoro di Dio, i piani, le scoperte, le bellezze, quello che Dio fa da queste parti… beh, già sarebbe ben speso il tempo del mio scrivere.
Che poi è un infinito rimettere la palla al centro, una Grazia che stimola il divenire.

(foto mia, Umbria 2011)

domenica 14 agosto 2011

Il pulmino a nove posti

Sabato sera, quasi ferragosto. Sono in terrazzo a scrivere, è fresco, ho indossato una vecchissima maglia. Qui da me d’estate è una meraviglia, pur essendo in una regione che soffre molto il caldo. Ho cenato con carne di pecora, come si usa in Abruzzo in questi giorni. Ovviamente in solitudine.

Sono stato fuori casa otto giorni, una vacanza un pò particolare sulle Dolomiti. Viaggiato con un pulmino a nove posti, in compagnia di tanti giovanissimi. Nostalgia nel tornare sulle montagne ove nacque il mio matrimonio, in luoghi particolarmente belli. Solo, non come sognavo tornarci dopo ben trentadue anni. Poi quando tocca a me guidare, mi rendo conto che non ho qui la mia famiglia naturale, ma ho tutti questi ragazzi. Non avendo famiglia, le ho tutte. Mi sento la responsabilità delle loro vite. “Donna, ecco tuo figlio”. I miei figli, moltiplicati.

Giorni belli, famiglia grande. Vecchi amici e nuovissimi. Legami che si rinsaldano. Famiglie unite, figli. Nostalgia dei tuoi, della carne della tua carne. Siamo alle Tre cime di Lavaredo, uno dei posti più celebrati della terra. Ho il cuore sventrato, ma certo non si vede, vivo pienamente il presente. Non posso non scrivere un sms: “I wish you were here”. Alla mia sposa, ai miei figli, alle new entry nella nostra bella martoriata famiglia.

In questi giorni poi è accaduto un fatto inverosimile. Mi accorgo di stare senza fede al mignolo, l’anello di matrimonio col nome della mia sposa inciso, di cui avevo già scritto in gennaio, qui sul blog. Sparito, perso chissà come, nell'arco di un'ora. Ci tenevo, era la cosa che in questo momento diceva al meglio del mio vivere. Un segno esterno della fedeltà. Cosa significa? Barcollo. Fare come niente fosse? Sono esterrefatto ancor oggi, cerco di interpretare il segno, non capisco.

E qualcuno coglie al volo l’occasione per ripetermi ancora di voltare pagina: il destino! Certo, non vorrebbero il mio dolore, ma manco io lo vorrei, non sono masochista. Mi ero coniugato per invecchiare insieme, nella gioia e nel dolore. Quando uno si sposa mette la sua vita nelle mani di una persona in fondo sconosciuta, a scatola chiusa.
Tempo fa sono stato affettuosamente invitato a pensare al mio futuro: “Paolo, invecchiare da soli non è bello”. Lo so, dormo solo da 8 anni. Ma andrebbe detto alla mia sposa, non dipende da me.

Nel partire tanti piangono, specie giovani. Abbracci, impegni, promesse.
Il rientro a casa è doloroso per tutti, ma per qualcuno forse di più. Dopo tanta famiglia, fratelli e sorelle, si rientra nella solitudine profonda. Stavolta mi è drammatico più del solito, un buio nuovo, confusione.

Oggi come una luce, finalmente. Era lì da un po’, ma non riuscivo a entrarci dentro: “Quindi se uno è in Cristo, è una creatura nuova; le cose vecchie sono passate, ecco ne sono nate di nuove”. (2 Cor. 5,17).
Cosa sarà del mio matrimonio? La risposta è qui: si aprono nuovi scenari, devo uscire dai miei vecchi usati schemi.

Tempo fa raccomandai a dei fidanzati di volare alto: la vita, il matrimonio. Guai a entrare in stallo, e scendere di quota: si precipita. Dio offre di volare alto sempre, come nei momenti più belli dell’innamoramento iniziale, quando tutto implode dentro.

“Cosicché ormai noi non conosciamo più nessuno secondo la carne; e anche se abbiamo conosciuto Cristo secondo la carne, ora non lo conosciamo più così” (2 Cor. 5,16).
Altre dimensioni, altro vivere mi attende.

(foto mia, Umbria 2006)