lunedì 16 maggio 2011

Scalarsi dentro

Mi scrive mia nipote Elena per invitarmi a vedere su youtube una intervista a Tiziano Terzani. Ha appena visto il film dal suo libro e approfondisce sul web.
Io lo conosco da anni, seguo il suo invito. Terzani è un grande, uomo vero. Mi immergo nelle sue parole: verifico il mio vivere alla luce del suo. Capto parole di grande umana saggezza.
“Capire l’altro è divenire un po’ come lui… La sola rivoluzione possibile è quella dentro di noi. Dopo trent’anni di viaggiare fuori, dovevo tentare un altro tipo di viaggio. Dentro di me. Sono andato sull’Himalaya… e ho riscoperto la natura! Ho l’impressione che la mia piccola vita insignificante sia invece una cosa importantissima perché è parte della vita di tutto... Concentrarsi solo su se stesso. Accettare la morte come parte della vita stessa. Sono uno che ha vissuto, e credo di aver capito il senso di questa bella esperienza che è la vita. L’unico vero maestro… è dentro di noi.”
Che meraviglia. Quest’uomo ha la capacità di mettermi sempre davanti a Dio, al mio Dio. Un Dio che lui pare ignorare, farne a meno. E a me sembra invece di vedercelo dentro in pieno.

Anni fa, all’udire da persona cara: “Bisogna scavarsi dentro…” ebbi da correggere quasi: “Scalarsi dentro, casomai!”. Pare un gioco di parole, ma sono due realtà contrapposte: si sale, invece di scendere.

Scalarsi dentro: Terzani. Trovare il maestro dentro di sé, trovare l’equilibrio vero.
Lui è andato eremita sull’Himalaya dopo aver conosciuto il mondo in trent’anni di viaggi.
Io mi son fatto vent’anni di deserto duro e ora son qui nella solitudine di questo eremo pur con tanti impegni “fuori”, continuando comunque la vita di tutti i giorni.
La prima volta che mio figlio, che vive in Svizzera e non capita di frequente da noi, mise piede in questa casa in cui vivevo già da tempo, entrando in camera da letto disse d’impeto: “Papà, ma questa è la cella di un convento!”. Vero, figlio mio. Da qui: eremo.

A volte parlerei da solo. Ho cose da comunicare, ma non c’è qui nei paraggi la mia sposa, la sola che forse potrebbe sino in fondo comprendere. Un po’ lo faccio con questo scrivere, con voi che mi seguite. Ma non è proprio la stessa cosa.

Ieri hanno sepolto il padre di Elisabetta, a Roma. Ho parlato con lei la sera prima. La partenza di un genitore, specie del primo, segna sempre un momento traumatico della propria vita. Elisabetta è una cara amica, una che conosce il dolore. Non ho parole speciali da darle. Solo la mia vicinanza seppur distante, la preghiera. L’empatia.
Pare tenere bene, adesso. Forse poi ci saranno momenti difficili, quando la vita rientrerà nei ritmi quotidiani.
Stiamo sotto il sole, Signore. E c’è un tempo per gioire, un tempo per piangere.

Lessi di padre Pio che lamentava che tutti lo assillavano per il miracolo, per togliere la sofferenza. E mai nessuno che chiedeva il miracolo di accettare il proprio vivere, il proprio dolore.

Forse questo è il vero miracolo dell’esistenza. Viverla bene e ringraziarne Iddio. Comunque essa sia.
In Cielo non erano contati pure i capelli del capo?

(foto mia, punta Penia - Marmolada, agosto 1976)

lunedì 9 maggio 2011

L'avventura

In questo week end ho rallentato il ritmo, c’erano diversi lavoretti che mi attendevano, in casa e in "giardino".
Avevo un sacco di panni accumulati e ho fatto tre lavatrici una dopo l’altra. Il sole splendeva e asciugava senza posa.
E ripensavo alla mia “professionalità” nel piegare le lenzuola, nello stenderle: mia madre insegnava bene e io, bambino, aiutavo bene.

Nei giorni passati invece tante cose importanti, momenti di grande impegno.
Ma poi mi trovo bene anche al rientro in questo mondo di piccole cose.
Tutto è Dio. Tutto.

Ho viaggiato solo, come sempre. Giovedì sera, al rientro, ho partecipato al terminar del giorno. Il sole che svaniva a ovest, oltre i rilievi. Il cielo che cambiava colore. Le prime stelle, un quarto di luna che brillava.
Sono arrivato a casa che dal bosco vicino già tutti cantavano. La notte qui è un concerto stupendo, nel buio quasi assoluto. Da una parte il bosco, dall’altra il piccolo fiume. In questa stagione vivo nella musica della natura, di notte come di giorno, d'altronde.

Quest’inverno probabilmente non ho ben coperto il mio alberello di arancio amaro. Ne è venuto un mezzo disastro. Ha sofferto, si è gelato dalle punte in giù e solo una piccola parte del tronco, in basso, aveva ancora rade foglie vive.
Stavo per eliminare drasticamente tutta la parte secca. Un amico esperto mi ha detto: “Aspetta, che magari dentro è vivo e riprende! A tagliare fai sempre in tempo.”
Ho creduto alle sue parole. Sole, acqua, un poco di concime.

In questi giorni sul tronco è un fiorire di virgulti. La vita implode dalla morte.

Oggi sarebbe, è, un giorno importante. Son trenta anni di matrimonio.
Anche se la legge dello stato italiano dice che sono libero e potrei sposarmi civilmente domattina, permango nel mio matrimonio volentieri.

Faccio un bilancio, ma conosco bene tutto e ho imparato un po’ a vedere con gli occhi del Padre.
Certo il sangue non manca.
Ma è la consapevolezza che il dolore più grande chiama l’amore più grande.

Stasera in qualche modo festeggerò.

Trenta anni fa forse c'era la sensazione che la mia vita, la nostra vita, sarebbe stata una bella avventura. Ma non potevo immaginare quanto e come e a quali livelli.
E non si giunge a ciò solo per l’amore a una donna che, per quanto splendida come la mia sposa, certo non può tanto.

Grazie Padre.
Grazie sposa mia diletta.

(foto mia: "l'arancio amaro che riprende vita", maggio 2011)

mercoledì 4 maggio 2011

Cuore pesante

Accade che a volte il cuore piange.
Una giornata stancante, un sacco di cose storte.
In macchina ho una musica avvolgente, che freme e mi dice nostalgia dell’eterno.
Stride con la pace che pare evaporata, con la stanchezza.

Stasera volevo andare ad un cineforum con bella gente, ma ho dovuto constatare che non ce l'avrei fatta a rientrare all’una. Già stanco, poi mi attendono viaggi solitari, giornate impegnative.
Passo un attimo, ma proprio un attimo, a vedere il mio nipotino: splendido, cresce e cambia giorno dopo giorno.
Torno a casa: pare giungere temporale e scopro che dodici ore prima, quando sono uscito per il lavoro, ho lasciato una finestra aperta. Mi viene da ridere, perché è successo pure ieri, identico.

Avvenne tanti anni fa.
Credo nei primi tempi in cui dormivo solo. Mi ero svegliato dal raro sonno con la sensazione netta del cuore pesante. Quando senti addosso il peso del tutto, e nulla pare giovare. Era così da anni, con alti e bassi: una vita in questo tono, ti ci abitui.
Poi alla sera mi chiama il mio amico Mario, che mi dice della sua giornata: la sensazione di cuore leggero, sta contento.
Urlo. Non è possibile, gli dico. E rido con lui. Non è possibile che mi giunga una tale risposta, immediata, allineata alle mie grida di dolore.

Cuore pesante, cuore leggero. Vite e situazioni analoghe, ma una differenza abnorme.
Mario non era proprio matto, ben sapevo da cosa nasceva il suo cuore leggero. Ne avevo nostalgia, era il mio sogno inconfessato da anni.

Poi deve essere accaduto qualcosa che manco capisco.
Credo di averci lavorato ancora tanto, nelle notti insonni, nei giorni tristi.
Pare si chiami fede: credere in qualcosa che non si vede, non si tocca.

Ma poi, quando hai il cuore leggero, in un vivere che proprio non lo supporrebbe, forse stai oltre la fede. Tocchi con mano, sai quello che è vero, sai cosa è reale. Divieni testimone.

Meno male che non sempre è così. Che rimetti i piedi in terra, come stasera.
Se fosse "paradiso" continuo si perderebbe il senso del reale.
E ringrazi Iddio di avere una vita normale, uomo tra gli uomini.

Prima passando in macchina in una stradina ho scorto un dolore muto negli occhi di una anziana affacciata in finestra: pareva dire grande afflizione.
Mi son sentito dentro la solitudine, il mare di sofferenza, il peso nel cuore di ogni uomo.
Sono miei come sempre, inevitabilmente.

(foto mia: la "resurrezione" del noce, aprile 2011)